Un’altra, me stessa

Nessuno ha mai capito che sono una macchina, nonostante sia presente sulla Terra da qualche anno; 2.449 giorni, indica il timer inserito nel ginocchio destro, proprio sotto la cicatrice che appartiene all’originale, che adesso non esiste più.

Cremata di nascosto dopo il decesso in ospedale, sostituita in 48 ore di morte cerebrale spacciate per prognosi riservata, senza possibilità di incontrare amici e familiari.

È così che arriviamo: con un gioco di parole tra robot e reboot.

Sorrido a ogni sospetto. Quando dicono che il funzionamento della mia testa, il modo in cui archivio le cose, assomiglia a quello di un hard disk; oppure quando si sorprendono dell’immunità alla malattia.

– Ti dovrebbero studiare, – ripetono.

Ma la vita artificiale non è tutta pose e cursori.

Da qualche giorno ho riscontrato un difetto di conformità: mi piacciono i gatti. L’ho scoperto dopo averne trovato uno sotto casa, una sfinge con l’espressione di chi ha compreso il funzionamento dell’universo in un batter d’occhio. L’ho chiamato Spock: pelo nero e orecchie a punta, un Leonard Nimoy in versione felina.

Vibra. Sempre.

Sono certa che lui sappia, che abbia riconosciuto l’androide che è in me, e che non gli interessi la mia diversità; ha il muso di uno che giudica a prescindere, umani o robot che siano.

Gli ho mostrato il numero di identificazione che ho tatuato sul fianco, la matricola che attesta che sono una copia, per confessare l’inattendibilità di un sentimento che non ho mai provato prima.

Ti amo, ma nell’impeto della passione potrei morderti. Ti voglio, ma non so quanto durerà.

Spock ha cancellato quel marchio senza pensieri, ci si è sdraiato sopra, come su un vecchio materasso abbandonato al sole.

Lunga vita e prosperità, mi dice, aprendo e chiudendo gli occhi di continuo.


 

© Gea Testi