Grasso che cola (mémoire in 1.728 battute)

Il quadro è quello lassù: una donna vestita di verde che stringe tra le mani il cordone di una culla. È La Berceuse di Van Gogh.

Augustine Roulin mi somiglia: i capelli rossi raccolti alla sommità della testa, il corpo abbandonato su una sedia, la faccia stanca e lo sguardo fisso per terra, in cerca di qualcosa che ha perso.

È una donna che conosce il sacrificio, come me.

La guardo e mi riconosco in tutto, anche nel modello del vestito che indossa: stretto sotto all’enorme seno e poi largo, non tagliato in vita, per nascondere la forma del suo corpo.   

L’unica cosa che ci distingue è il colore dell’abito, perché io non indosserei mai quel verde così brillante; una pianta in salute, ma spezzata dentro.

Sono attratta dai colori vivaci, ma non su di me. Ho bisogno di vederli fuori, distanti, nel cibo o nei palazzi, nelle fotografie, nella moda degli altri, dappertutto, ma non su di me.

Qualche anno fa, a teatro, il mio insegnante chiese di fare un esercizio, un gioco di quelli che si fanno con chi è alle prime armi: interpretare un colore. Non ne fui capace. Mentre i miei compagni procedevano come silfidi dando vita ad azzurri sinuosi e a gialli imprevedibili e felici, io sfilavo come una pesante valchiria nera, un cumulonembo carico di pioggia rabbiosa.

Quando sei grassa, e io lo sono, credi di non avere diritto a tante cose, tra cui la possibilità di scegliere. Non è un pensiero spontaneo, ma il frutto di tutti gli anni in cui hai sentito dire, ad esempio, che le nuance scure rimpiccioliscono, smagriscono, sfinano.

La relazione tra me e il colore è un amore impossibile, come una crush per un personaggio famoso: ci fantastichi sopra di continuo, ma, se lo incontri, non hai neanche il coraggio di dirgli ciao.


 

© Gea Testi